di Antonio Corvino

Il Pensiero Meridiano nasce come sintesi esperienziale dei popoli segnati dalle civiltà e dalle culture millenarie sviluppatesi nel Mediterraneo all’insegna della sacralità del rapporto con la terra e la natura e nel rispetto della proiezione divina della stessa umanità.

Il senso del limite e della misura segnavano, in quei popoli, i confini delle possibilità ed i limiti dei rapporti umani, mentre la coscienza della loro invalicabilità sanciva la condizione di felicità degli individui e delle comunità al riparo da eccessi che avrebbero rotto l’equilibrio dei cicli naturali e compromesso il rapporto con la divinità.

Il senso del limite e della misura. Il senso del limite si traduceva nella consapevolezza, e conseguente accettazione della condizione umana legata all’efficacia dell’impegno ed alla resa del lavoro umano mentre il senso della misura ne fissava la coerenza con le leggi del Pianeta, stabilendo la compatibilità dell’attività degli uomini con i tempi e i cicli della terra e la variabilità della natura.

La sopravvivenza della specie umana e la evoluzione della stessa, sia a livello individuale che collettivo, era legata infatti ai frutti della terra che andavano coltivati e colti con fatica e parsimonia, al riparo da ogni forma di eccesso o di spreco.

La nobiltà stessa traeva origine da essa e dal lavoro proprio o altrui necessario a coltivarla per trarne i frutti mentre la generosità del signore dipendeva dal suo rapporto più o meno virtuoso con entrambe le componenti. Andare oltre il limite provocava il fallimento della propria azione e poteva provocare addirittura la punizione divina.

Il superamento del senso del limite e della misura si manifestavano nella tracotanza, nell’ irresponsabilità o, semplicemente, nell’eccesso di orgoglio che i Greci attribuivano all’Hybris, il peccato di superbia o semplicemente di ignoranza o sopravvalutazione della propria dimensione, capacità o possibilità, da parte degli uomini.

Essa rompeva l’equilibrio e provocava la Nemesi divina che avrebbe ricomposto quell’equilibrio a costo tuttavia di sofferenze e punizioni assai dolorose e pregne di gravi e addirittura irrimediabili conseguenze. Ne scaturiva un pensiero ed un’azione che nel pacato ragionamento e nella giusta valutazione delle proprie azioni trovava il naturale equilibrio. Esso escludeva ogni frenesia ed ogni eccesso sia nell’uso delle risorse che andavano impiegate entro i confini delle necessità individuali e collettive, sia nei comportamenti che dovevano mantenersi entro i recinti del rispetto della dimensione sacra della natura e degli uomini oltre che della volontà divina.

La vicenda, narrata da Omero nell’Odissea, dei Proci che ad Itaca, in assenza del re, insidiavano Penelope, offendevano Telemaco, ne dilapidavano gli averi mancando di rispetto ai suoi servi che custodivano i campi ed allevavano greggi e mandrie, provocando al fine la terribile reazione dell’eroe e l’intervento di Athena per ristabilire l’ordine e gli equilibri infranti, ne é una straordinaria rappresentazione in chiave metaforica.

Il Mediterraneo e l’antidoto contro la frenesia consumistica.

Senso del limite e della misura disegnavano quindi i confini della cultura e della civiltà mediterranea ereditate dai Greci e giunte sino a noi.

Essi, sosteneva Camus nel suo “ L’Homme révolté”all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, allorché il mondo era percorso da irrefrenabile voglia di progresso ed inarrestabile fretta di mettersi alle spalle ogni tipo di sofferenza e rinuncia, assegnavano al Mediterraneo il potere dell’antidoto contro l’ambizione sfrenata dei paesi del nord Europa lanciati senza freno alcuno verso uno sviluppo dei consumi senza limiti che, alla lunga, osservava acutamente Camus, avrebbe finito per compromettere gli equilibri naturali oltre che la stessa convivenza umana.

Insomma, secondo lo scrittore franco-algerino, il Mediterraneo aveva in sé gli anticorpi per bloccare la corsa rovinosa del Nord Europa a condizione che avesse conservato la sua cultura e la civiltà che fissavano appunto nel senso del limite e della misura l’espressione più alta del rispetto del vincolo umano e naturale.

Anche la salvaguardia della dimensione sacra dell’uomo avrebbe trovato in essi la necessaria garanzia.

Pasolini, a sua volta, già negli anni ‘60 e ‘70 intuì che senso del limite e della misura erano stati compromessi e che la dirompente società industriale si apprestava a distruggerli definitivamente sancendo l’avvento di una civiltà figlia (o prigioniera) del consumismo fine a sé stesso che galoppava rovinando i rapporti individuali nonché quelli tra le comunità e le nazioni fino a dissolverne la sacralità primordiale e con essa la stessa essenza dell’umanità.

La deriva colta da Pasolini non riguardava la realtà nordeuropea e atlantica soltanto. Essa coinvolgeva anche l’intera comunità italiana e si andava diffondendo inarrestabile persino nei territori del Sud che erano i depositari dell’antica cultura e civiltà greca, con l’azzeramento della sua dimensione primordiale ed il conseguente rifiuto dei suoi valori ancestrali custoditi dalla società contadina.

Dalla civiltà industriale a quella iper-capitalistica.

In realtà, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, il mondo si avviò a sperimentare quello che sarebbe passato alla storia come il miracolo economico che avrebbe provocato la fine della civiltà contadina, l’avvento della civiltà industriale e parallelamente la rottura degli equilibri custoditi dal senso del limite e dalla misura tramandati dai Greci.

Il consumismo praticato dalla civiltà industriale imponeva quella rottura e fissava il consumo come obiettivo fine a sé stesso e addirittura come premessa e condizione della stessa felicità umana.

Il passaggio dalla civiltà industriale a quella finanziaria e quindi a quella della speculazione iper capitalistica ( o turbo capitalistica ) ha segnato l’attuale rottura degli equilibri mondiali imponendo la necessità di costruirne di nuovi.

Il Mezzogiorno ed il Mediterraneo nei nuovi scenari.

Anche a Sud si ruppero quegli equilibri. Iniziò così anche qui una lenta ma inesorabile colonizzazione culturale ma anche produttiva da parte del nord che avrebbe portato nell’arco di qualche decennio al capovolgimento dell’antica civiltà greca che lo aveva caratterizzato.

Lo sviluppo industriale si concentrava tra le sponde del Mare del Nord e le sponde dell’Atlantico secondo un paradigma che declinava investimenti e capacità produttiva e tecnologica in quella direttrice, trasformando il Mediterraneo in un’area periferica da utilizzare come riserva di manodopera in Europa e di materie prime in Africa e nel Vicino e Medio Oriente.

La successiva trasformazione del mondo in un villaggio globale ad opera dell’iper-capitalismo e la fine della divisione in blocchi contrapposti del mondo fece il resto.

Il consumismo divenne l’essenza stessa della nuova civiltà, una sorta di nuovo “Leviatano” da cui si sviluppò una nuova cultura dei rapporti umani e delle comunità a livello mondiale che ha azzerato ogni senso del limite e della misura, annullando ogni dimensione sacra dell’uomo e della natura e imponendo paradigmi e modelli uniformi ed ovunque saturi di violenza e sopraffazione.

Di conseguenza il Mediterraneo perdette la sua specificità ed anche la sua funzione di antidoto atto a contrastare la deriva del paradigma nord Atlantico e delle devianze iper capitalistiche. Venne meno così la speranza di Camus. La denuncia di Pasolini divenne l’urlo di un profeta consapevole di essere sconfitto essendo destinato a non essere più ascoltato da un mondo che non si riconosceva più, nemmeno a Sud, nella civiltà e nella cultura mediterranea.

Lo sviluppo per clonazione.

In Italia, ma anche in tutta Europa e addirittura in Nord Africa e nel Vicino e Medio Oriente, si cominciò a contrabbandare per sviluppo la clonazione di azioni maturate e consolidate al Nord in vista di processi a quello funzionali sul piano dei costi oltre che dell’uso delle materie prime.

Ne scaturì un’industrializzazione subalterna destinata a morire provocando disoccupazione patologicamente endemica, emigrazione, abbandono e desertificazione in uno con modelli culturali ormai abbarbicati al consumismo ed alla speculazione internazionale che non disdegna il ricorso alle guerre e che intanto aveva trasformato il villaggio globale in un immenso caravanserraglio in cui potenze globali e potentati locali, le più diverse, avevano licenza di violare terre e popoli asservendo entrambi ai loro interessi.

Lo sviluppo del Mezzogiorno italiano.

Nel Mezzogiorno italiano, a partire dagli anni’70, maturò il convincimento che lo sviluppo o sarebbe stato quello mutuato dal paradigma nordatlantico o non sarebbe stato.

Si prese così ad impiantare a Sud un apparato industriale che ripeteva gli stereotipi del nord salvo a non avere di quello le caratteristiche e soprattutto il radicamento nel sistema complessivo europeo e nordatlantico o mondiale ormai coincidenti.

Ma non bastò. Se da un lato quel processo mostrò in breve tempo il fiato grosso, lasciando fabbriche scheletrite od inquinamento nel migliore dei casi (ossia dove aveva attecchito, vedi Taranto, Gela, Bagnoli…), con sparute eccezioni spesso propagandate come foglie di fico per coprire le vergogne della disoccupazione, emigrazione, spopolamento e abbandono dei territori, dall’altro ingenerò il convincimento, non solo presso le istanze istituzionali, ma anche presso l’ opinione pubblica e le raffazzonate classi dirigenti meridionali che lo sviluppo a Sud non poteva scaturire che per tracimazione dallo sviluppo del Nord.

Dal sud infingardo ad un sud omologato.

Se ciò non avveniva la colpa era di un Sud infingardo, incapace e affetto da scarsa volontà di tirarsi su le maniche e lavorare sodo, con il corollario che qui non si era in grado di progettare e nemmeno di spendere i soldi assegnati e che tanto valeva lasciarlo andare al suo destino di desertificazione magari sfruttando tale desertificazione per creare qui un hub energetico fotovoltaico ed eolico, oltre che fossile, a servizio dell’Europa intera.

Insomma, il Sud non era riuscito a svolgere la profetizzata azione di antidoto alla frenesia consumistica del Nord e ne era stato addirittura fagocitato. I Meridionali, infatti, cominciarono a scimmiottare comportamenti, modi di vivere e di produrre e soprattutto di consumare propri della civiltà da caravanserraglio del paradigma nordatlantico che aveva cooptato le espressioni speculative del mondo intero che intanto si baloccava dietro la finta ricerca di un equilibrio policentrico e frastagliato in luogo di quello monolitico affermatosi nel XX secolo.

Un diffuso senso di colpa si era intanto radicato a Mezzogiorno che si cercava di esorcizzare pensando e operando, con scarso successo, tuttavia, secondo parametri e paradigmi del Nord.

La desertificazione del Sud.

Che intanto a Sud l’agricoltura familiare, compatibile con la biodiversità mediterranea e la ricchezza della dieta mediterranea fosse stata conculcata sino ad essere distrutta, non importava a nessuno, che i territori fossero stati abbandonati non spaventava nessuno, anzi, che i ragazzi se ne andassero al ritmo di 80/100.000 all’anno, era addirittura normale. E si continuò ad importare i modelli del nord incompatibili con la natura stessa del sud, i suoi tempi, le sue stagioni, la sua cultura, il suo pensiero.

Le aberrazioni dello Stato sociale a Sud.

Addirittura, anche nella declinazione dello Stato sociale si prese a replicare il modello del nord.

La straordinaria cultura comunitaria che nascondeva, tutelava e valorizzava l’autonomia delle persone che a Sud erano in grado di vivere in piena autonomia sin nella più tarda età e che avrebbe richiesto la creazione di una rete di assistenza domiciliare, venne violata e sostituita con la rete delle cosiddette RSA che violentavano la cultura della casa e della famiglia per rinchiudere gli anziani in strutture spesso da essi assimilate a vere e proprie prigioni appaltate alla speculazione priva di scrupoli del capitale e della finanza privata. La stessa cosa è successa per l’accoglienza dei i bambini per i quali, proprio a causa dello spopolamento conclamato dei territori, diventava più proficuo consolidare e favorire una rete che rimettesse in circolo gli anziani a supporto dell’assistenza dei bambini piuttosto che inventarsi asili spopolati e chiusi dove fossero stato aperti.

Rimettere in piedi il Sud.

Lo sviluppo andava, sic et simpliciter, progettato partendo dai territori e non rendendo questi ultimi destinatari di qualcosa di estraneo se non, addirittura, funzionale alla speculazione.

Il Mezzogiorno violato e privato della sua cultura e della sua civiltà andava rimesso in piedi, affermando la sua specificità e ripartendo dalla sua cultura e civiltà.

Non si trattava di mutuare l’altrui sviluppo ma di perseguire il proprio sviluppo come espressione della cultura e civiltà mediterranee e quale componente della stessa dimensione continentale del Mediterraneo. Bisognava per questo ripartire dal pensiero.

Riaffermare la dignità del pensiero meridiano.

Andava riaffermata la dignità, in termini di alterità, del Mezzogiorno e del Mediterraneo rispetto al Nord Italia, al Nord Europa, al nord Atlantico ed al resto del mondo, rifiutando la cultura del consumismo del villaggio globale divenuto caravanserraglio. Tale assunto non poteva che derivare dalla affermazione del pensiero meridiano che affonda le sue radici nella plurimillenaria cultura e civiltà mediterranea, che conosce il senso della misura e del limite e che pratica come valore inalienabile il senso dell’autonomia individuale e dell’appartenenza comunitaria vivendo in simbiosi con i tempi e le stagioni della natura.

Franco Cassano capì che andava rimesso in piedi ciò che era stato rovesciato e che pertanto andava riaffermata la dignità culturale, esperienziale e civile tout-court del pensare meridiano.

Spopolamento, immigrazione e terre dei centenari.

A sud vi sono ancora le terre che vengono definite dei centenari.

Gente che vive rispettando il senso del limite e della misura e che trova nella dimensione comunitaria il cemento della sua vita individuale. Bisognerà ripartire da qui per restituire al Sud, al Mezzogiorno, al Mediterraneo tutto intero, il suo ruolo lasciando che si inventi il suo destino sul piano dello sviluppo su tutti i fronti, a partire da quello del ripopolamento delle terre di mezzo, accogliendo quanti attraversano il Mediterraneo in cerca di un sorso di fortuna.

Un Mezzogiorno che ha già perso due milioni di giovani e che nei prossimi decenni ne perderà altri quattro non può non porsi il problema del suo ripopolamento. Non si cresce se la popolazione diventa sempre più rarefatta. Ed anzi l’accoglienza dovrà divenire un obiettivo prioritario per tutta la nazione.

Unità Mediterranea.

La visione Mediterranea, sulla scia di Braudel e di Matveyevic che intravedevano nelle molteplicità e nelle differenze del Mediterraneo i segni della sua dimensione unitaria (il Mediterraneo si estende per tutti i territori dove cresce l’olivo e comprende tutti i popoli che lo coltivano), diventa così la premessa e la condizione per restituire a Mezzogiorno ruolo e funzione ma anche per garantire all’intera nazione italica ed all’Europa una nuova indispensabile prospettiva. E questa non può che andare nella direzione del Continente Mediterraneo che finalmente potrà fornire al mondo l’antidoto per la sua salvezza ed ai territori che in esso si bagnano una prospettiva finalmente concreta di sviluppo legata al suo paradigma di civiltà, di cultura e di cooperazione sulla base del rispetto solidale di tutti i popoli che in esso vivono.